Nel bel mezzo delle turbolenze legate all’antitrust che stanno scuotendo Google, Ecosia ha deciso di proporsi come amministratore fiduciario di Chrome per i prossimi 10 anni. Niente acquisizioni miliardarie, niente offerte shock; solo una proposta non-profit. Tuttavia, il suo obiettivo è di convertire i profitti del browser più usato al mondo in carburante per progetti ambientali.
L’idea arriva direttamente da Christian Kroll, fondatore e CEO di Ecosia, motore di ricerca tedesco noto per investire i ricavi in riforestazione e cause climatiche. In questo periodo, il Dipartimento di Giustizia americano spinge Google a separarsi da Chrome. Quindi, l’offerta di Ecosia è stata formalmente inviata al giudice federale Amit Mehta, che sta valutando i possibili rimedi alla posizione dominante di Google.

Mentre OpenAI e Perplexity mettono sul tavolo offerte da decine di miliardi, Ecosia fa una proposta diversa; zero dollari e l’impegno di destinare il 60% dei ricavi stimati di Chrome a iniziative green in tutto il mondo. Il restante 40% andrebbe comunque a Google, che manterrebbe la proprietà intellettuale del browser. Ecco perché, nonostante l’apparente assurdità dell’offerta, questa proposta sta facendo parlare tutta la Silicon Valley.
Ecosia propone un modello di gestione alternativo

L’elemento più interessante della proposta è l’idea di trasformare Chrome in una fondazione, piuttosto che venderlo a un concorrente. Google continuerebbe a possedere la tecnologia e il marchio, ma lascerebbe la gestione operativa del browser a Ecosia per un decennio. Un modello che rompe con la logica classica delle acquisizioni tech. La proposta include un piano dettagliato su come i fondi generati da Chrome verrebbero reinvestiti in cause ambientali: protezione delle foreste tropicali, riforestazione agroecologica, denunce legali contro i grandi inquinatori e ricerca in AI sostenibile.
Questa proposta rispecchia perfettamente la missione di Ecosia. Dal 2009 ad oggi l’azienda ha finanziato la piantumazione di oltre 200 milioni di alberi in più di 35 paesi. Ma l’ambizione qui va oltre: si punta a trasformare Chrome in uno strumento di impatto planetario. Le precedenti collaborazioni di Ecosia, come quella con Qwant per il motore Staan, dimostrano che l’azienda non ha paura di sfidare i colossi del web quando c’è in ballo la sostenibilità. Tuttavia, la fattibilità dell’operazione è ancora tutta da dimostrare; restano aperte molte incognite sul piano legale e politico; senza contare la reazione di Google, che finora non ha rilasciato commenti.
Le altre offerte sul tavolo e il dilemma per Google
Il tempismo della proposta Ecosia non è casuale: arriva proprio mentre Google si trova sotto la lente delle autorità antitrust e deve valutare opzioni concrete per non dover cedere Chrome. Il Dipartimento di Giustizia ha già chiesto la separazione, e sebbene Google abbia annunciato ricorso, le manovre alternative non mancano. Perplexity, startup focalizzata sull’intelligenza artificiale, ha messo sul tavolo 34,5 miliardi di dollari in cash. Anche OpenAI ha dichiarato pubblicamente di essere pronta a subentrare, se ne avrà l’opportunità.
Rispetto a queste proposte, quella di Ecosia appare a prima vista fragile, priva del peso finanziario delle big tech. Ma proprio qui si cela la forza dell’iniziativa: niente speculazione, niente scalate azionarie; solo una visione differente su come dovrebbe funzionare un’infrastruttura digitale globale. Google, da parte sua, potrebbe anche trarre vantaggio in termini d’immagine da un’operazione del genere, mantenendo comunque una fetta del business e alleggerendo la pressione normativa. L’accordo proposto prevede infatti che Google resti il motore di ricerca predefinito su Chrome, mantenendo quindi una rendita costante.

Perché la proposta di Ecosia merita attenzione?
Che la proposta venga accettata o meno, il fatto stesso che sia stata avanzata sposta l’asse del dibattito. Ecosia sta mettendo in discussione il paradigma dominante nella Silicon Valley. Allo stesso tempo, lancia anche un messaggio forte: un futuro digitale in cui le grandi piattaforme lavorino anche per il bene collettivo. Questo non vuol dire abbandonare l’efficienza o la scalabilità, ma integrarle con i valori ambientali.
L’idea di affidare Chrome a una fondazione ambientale non è più solo una questione di tecnologia; ma di etica, governance e sostenibilità. Se Google e i regolatori dovessero davvero prendere in considerazione questa opzione, in futuro avremo un browser planetario in cui ogni click diventa un investimento ambientale.