Google ha sempre sostenuto che il web fosse in ottima salute. Le dichiarazioni ufficiali dei suoi dirigenti, fino a pochi mesi fa, non lasciavano spazio a dubbi. La rete, secondo loro, era viva e vegeta. Sundar Pichai, CEO dell’azienda, parlava di un ecosistema digitale dinamico e in continua espansione. Nick Fox, Vicepresidente della Ricerca, si spingeva oltre, affermando pubblicamente che “il web sta prosperando“. Nessun pericolo di un Google Zero in vista, si diceva.
Tuttavia, in una recente documentazione legale depositata presso una corte federale statunitense il 5 settembre 2025, la stessa Google ha affermato che “il web aperto è già in rapido declino“. La rivelazione segna una frattura evidente tra le dichiarazioni pubbliche e le argomentazioni legali dell’azienda. La documentazione è stata depositata in un procedimento antitrust promosso dal Dipartimento di Giustizia (DOJ). Il procedimento riguarda le pressioni del governo per la divisione di AdX (il marketplace pubblicitario di Google) accusato di pratiche monopolistiche.


Google sostiene che tale intervento peggiorerebbe il declino del web aperto, danneggiando i publisher che ancora dipendono dalla pubblicità display. L’affermazione, per quanto strumentale in un’aula di tribunale, ha un peso enorme nel dibattito più ampio sulla salute dell’informazione online. Mette in discussione l’autorità e la trasparenza di Google nel dibattito sull’evoluzione dell’ecosistema digitale.
Google e le forze che minacciano l’open web
La causa legale riguarda la struttura del mercato pubblicitario digitale e il ruolo predominante di Google in esso. Il Dipartimento di Giustizia accusa l’azienda di aver consolidato il proprio controllo attraverso l’integrazione verticale di prodotti come AdX e DFP, escludendo la concorrenza e rafforzando la propria posizione dominante. Tuttavia, Google sostiene che l’eventuale dismissione dei suoi strumenti pubblicitari danneggerebbe i publisher indipendenti; che sono già messi a dura prova dal calo delle entrate derivanti dalla pubblicità sul web aperto.
Nel documento legale, si afferma che solo l’11% delle impression display su AdWords, a gennaio 2025, riguardava il web aperto; nel 2019, questa quota superava il 40%. Secondo Google, la responsabilità di tale declino non è imputabile al suo potere di mercato; ma alla trasformazione dell’industria e all’emergere di nuove piattaforme (ovvero soprattutto le piattaforme di ricerca AI). L’evoluzione del panorama tecnologico ha spostato l’attenzione da una rete aperta, fatta di siti autonomi e interconnessi, verso ambienti chiusi, centralizzati e difficilmente accessibili. Le piattaforme social, le app mobili e le tecnologie basate sull’IA stanno catalizzando una parte sempre maggiore del tempo e dell’interesse del pubblico.
Anche la concorrenza è spietata e arriva da realtà come Amazon, Netflix, Disney, Meta; tutte aziende che hanno investito massicciamente in soluzioni pubblicitarie all’interno delle proprie piattaforme, riducendo lo spazio per l’esterno. Le pubblicità non puntano più a siti esterni, ma si concentrano in ecosistemi chiusi dove il controllo è totale.
La contraddizione che mina la fiducia
Uno degli aspetti più controversi dell’intera vicenda è la distanza tra il discorso pubblico di Google e la posizione assunta in sede legale. Se da un lato i portavoce continuano a difendere la vitalità della rete, dall’altro i legali parlano chiaramente di un’erosione in atto. La reazione della comunità tecnologica non si è fatta attendere. Giornalisti di rilievo come Jason Kint, hanno sollevato dubbi sull’integrità delle comunicazioni ufficiali dell’azienda. Le dichiarazioni interne e quelle rivolte al pubblico sembrano disallineate, alimentando sospetti di manipolazione strategica.
Google ha provato a correggere il tiro. In risposta alle critiche, Dan Taylor, Vicepresidente globale per le pubblicità, ha precisato che la frase incriminata si riferiva esclusivamente al mercato del display advertising, non al web aperto nel suo complesso. Una puntualizzazione che però suona debole, soprattutto alla luce del contesto: nei tribunali si parla di mercato digitale, ma fuori si parla di cultura, accesso all’informazione, libertà di espressione. Il confine tra tecnica e ideologia si fa sottile, e proprio l’ambiguità lessicale rischia di far deragliare il dibattito.
Le conseguenze di questa contraddizione vanno oltre la semplice reputazione di Google. Se il pubblico e gli investitori iniziano a percepire incoerenza o strumentalizzazione, anche la legittimità delle strategie aziendali viene messa in discussione. Per un’impresa che basa buona parte del proprio valore sulla fiducia nel suo algoritmo e nelle sue metriche, la coerenza comunicativa non è un dettaglio.
Google e cosa resta del web aperto
Il quadro delineato dai documenti giudiziari e dalle analisi di settore è tutt’altro che ottimistico. Ma dichiarare la morte del web aperto sarebbe prematuro. La centralizzazione delle piattaforme, l’uso pervasivo dell’AI e la migrazione verso ambienti chiusi sono fenomeni reali, ma non irreversibili. Ciò che manca è un nuovo equilibrio. L’ecosistema web ha bisogno di strumenti, regole e modelli economici che possano convivere con le nuove tecnologie.
Nel frattempo, il ruolo del pubblico resta centrale. Le scelte quotidiane su dove informarsi, cosa condividere e quali piattaforme utilizzare hanno un peso. Ogni click, ogni abbonamento, ogni interazione contribuisce a disegnare il futuro del web. E se è vero che Google ha acceso i riflettori sul declino dell’open web, forse ora è il momento di chiedersi chi debba prendersi la responsabilità di salvarlo.










